Con l’articolata sentenza n.12041/2020, gli ermellini della sez. IV lavoro, in merito al fatto costituente reato conseguente alla malattia professionale contratta dal lavoratore, da cui ne discende la responsabilità del datore di lavoro ex art. 10 e 11 del D.p.r. 1124/1965, hanno posto l’accento – basandosi ed avvalorando criteri ormai già consolidati da parte della giurisprudenza e rafforzando il dettame normativo presente nell’ordinamento domestico – in merito ai requisiti posti a fondamento dell’invocazione del giudizio in sede di legittimità ed hanno altresì chiarito le regole di diritto che governano rispettivamente il tema di assicurazione obbligatoria contro gli infortuni, la prova liberatoria del lavoratore in sede di merito per l’accertamento del nesso causale ai fini della responsabilità civile del datore di lavoro (ergo, la responsabilità contrattuale ex art. 1218 c.c. e risarcimento del danno non patrimoniale ex artt. 2043 e 2059 c.c. ), la posizione del giudice civile in sede di merito nella valutazione del fatto-reato e la precipua definizione dei principi di diritto sulla qualificazione e quantificazione degli interessi derivanti dal danno alla salute, definendone compiutamente i contorni classificatori ai fini di un corretto inquadramento giurisprudenziale per la loro liquidazione.
I giudici di legittimità si soffermano su uno dei temi ancor oggi molto sentito tra la classe dei lavoratori dipendenti, ossia la (mancata) tutela del diritto alla salute sul posto di lavoro. Il gravame posto in capo al lavoratore in merito all’onere di provare l’esistenza del danno che lamenti di aver subito a causa della mancata adozione, da parte del datore di lavoro, delle cautele necessarie (ergo, misure di sicurezza), nonché il nesso di causalità tra l’una e l’altra, riscontra una duplice visione in sede di legittimità: se da un lato, in base all’insegnamento giurisprudenziale dettato dalla Corte (sul punto v. Cass. 12445/2006; Cass. n. 3033/2012; Cass. n. 15082/2014; Cass. n. 4084/2018; Cass. n. 27964/2018; Cass. n. 10319/2019) incombe sul lavoratore la prova dell’esistenza di tale danno e del nesso di causalità tra il danno e l’evento derivante dall’attività lavorativa svolta (come pure la nocività dell’ambiente di lavoro), spetta al datore di lavoro, stante una responsabilità di natura contrattuale, dimostrare di aver adottato tutte le cautele necessarie ad impedire il verificarsi del danno. In particolare, nel caso in cui si discorra di misure di sicurezza cd. “innominate”, ex art. 2087 c.c., la prova liberatoria a carico del datore di lavoro risulta generalmente correlata alla quantificazione della misura delle diligenza ritenuta esigibile, nella predisposizione delle indicate misure di sicurezza, imponendosi, di norma, al datore di lavoro l’onere di provare l’adozione di comportamenti specifici che, ancorché non dettati dalla legge (o altra fonte equiparata), siano suggeriti da conoscenze sperimentali e tecniche, dagli standard di sicurezza normalmente osservati o trovino riferimento in fonti analoghe. Se si escludesse, quindi, qualsiasi onere probatorio a carico dell’imprenditore sarebbe non il riconoscimento di una responsabilità oggettiva bensì di impunità (Cass. sez. lav. 10 gennaio 2011 n. 306).
Dall’altro lato, invece, si nega che il lavoratore debba specificamente indicare le misure che avrebbero dovuto essere adottate in prevenzione (sul punto, Cass. n. 3788/2009; Cass. n. 21590/2008; Cass. n. 9856/2002; Cass. n. 1886/2000; Cass. n. 3234/1999) e ciò trova non solo accoglimento in ossequio ai criteri della ripartizione dell’onere probatorio in funzione dei ruoli lavorartivi assegnati all’interno dell’organigramma aziendale bensì nel carico probatorio a cui ogni parte in causa è sottesa. In particolare, leggendo tra le maglie giurisprudenziali, si svuoterebbe di valore e di significato il contenuto del dettame normativo ex art. 2082 c.c. ed ex art. 1218 c.c. Per cui, dato che spetta al datore di lavoro, nell’esercizio professionale di un’attività economica organizzata, l’adozione di misure idonee alla prevenzione del danno, l’eventuale inversione dell’onere probatorio si porrebbe in contrasto con la prescrizione della Carta costituzionale di cui all’art. 38 ed ex art. 2095 c.c in cui, pur vigendo una classificazione dei prestatori di lavoro, i ruoli, i diritti ed i doveri sono differenti a seconda della posizione ricoperta nell’organigramma aziendale. Risulterebbe quindi eccessivamente gravoso l’onere probatorio in capo al lavoratore di indicare le misure idonee alla salvaguardia ed alla prevenzione degli infortuni o malattie professionali dal momento che, anche in via presuntiva, si desume che le conoscenze tecniche sul funzionamento aziendale siano prevalentemente riservate in capo a chi esercita attività d’impresa. Infatti, al primo comma dell’art. 2059, si specifica che gli “operai” sono coloro i quali svolgono compiti meramente manuali (che afferiscono al solo processo produttivo) sicché la loro prestazione si qualifica come collaborazione nell’azienda – fermo restando il criterio che determina la contrattazione collettiva sulla base delle mansioni, ossia dei compiti effettivamente attribuiti al lavoratore- che differisce dalle categorie normative previste (“dirigenti”, “quadri” ed “impiegati”) ognuno dei quali, pur essendo subordinato, risulta detentore di qualifiche intellettuali e di mansioni differenti.
Nel prosieguo delle ragioni della decisione, la Corte, sulla questione dei criteri di accertamento della responsabilità del datore di lavoro in caso di azione del lavoratore proposta per il risarcimento del danno cd. “differenziale” (derivante da infortunio o malattia professionale), pur in assenza del presupposto che sarebbe costituito esclusivamente dalla “condanna penale per il fatto dal quale l’infortunio è derivato” (da intendere anche come accertamento di responsabilità in sede civile ma secondo i principi e le regole proprie del processo penale, ossia: con la prova, a carico della parte danneggiata, del fatto lesivo, del danno, del nesso causale e della colpa – dunque, dell’esistenza del reato in tutti i suoi elementi soggettivi ed oggettivi- e non secondo presunzioni o inversioni dell’onere probatorio), i giudici di legittimità avvalorano una più recente pronuncia (Cass. n. 26497/2018) che funge da ago della bilancia rispetto a delle precedenti enunciazioni di diritto (il riparto degli oneri probatori in tema di accertamento della colpa, ove nel giudizio penale l’accusa è tenuta a dimostrare l’elemento soggettivo in concreto ed in positivo, con rischio a propio carico nel caso di insufficienza del quadro probatorio, per la responsabilità civile contrattuale opera il meccanismo dell’inversione dell’onere probatorio di cui all’art. 1218 c.c., gravando sull’autore del danno il peso della prova liberatoria. La questione posta dal motivo in esame trova riscontro in taluni precedenti giurisprudenziali della Corte giudicante; in particolare, sul tema del riparto degli oneri probatori, si è affermato che “il riparto degli oneri probatori nella domanda di danno differenziale da infortunio sul lavoro si pone negli stessi termini che nell’art. 1218 c.c. sull’inadempimento delle obbligazioni […] ne consegue che il lavoratore deve allegare e provare l’esistenza dell’obbligazione lavorativa, del danno ed il nesso causale di questo con la prestazione, mentre il datore di lavoro deve provare che il danno è dipeso da causa a lui non imputabile e cioè di avere adempiuto al suo obbligo di sicurezza, apprestando tutte le misure per evitare il danno” (Cass. n. 9817/2008; analogamente v. Cass. n. 21590/2008 e Cass. n. 15078/2009). Ancora più marcata è la distanza in fase di accertamento del nesso causale, ove l’art. 533 del codice di rito penale impone che il rapporto di causalità tra la condotta e l’evento debba essere stabilita “al di là di ogni ragionevole dubbio” (Cass. SS.UU. pen. n. 30328/2002; Cass. SS.UU. pen. n. 38343/2014; Cass. SS.UU. pen. n. 33749/2017), mentre la regola nei giudizi civili è quella “del più probabile che non” (Cass. SS.UU. n. 576/2008; Cass. SS.UU. n. 23197/2018), con conseguenze di rilievo soprattutto nel caso di malattie o infortuni determinati da condotte omissive) affermando che “una volta allegato che l’infortunio sia avvenuto, o in ipotesi sul lavoratore che agisce per differenziale – ferma l’allegazione dell’illiceità penale del fatto – incombe soltanto la prova del nesso causale tra l’infortunio ed il fatto, secondo lo schema della responsabilità contrattuale ex art. 1218 c.c.”
Inoltre, in tema di azioni di risarcimento del danno promosse dal lavoratore colpito da eventi cagionati dall’espletamento dell’attività lavorativa, la normativa su cui poggia l’intero sistema – divenuta ormai ius receptum – è da ricondurre rispettivamente agli artt. 10 e 11 del D.p.r. 1124/1965 nei quali è sì previsto, da un lato, l’esonero del datore di lavoro dalla responsabilità civile per gli infortuni sul lavoro o le malattie professionali nell’ambito dei rischi coperti dall’assicurazione (con i suoi limiti soggettivi ed oggettivi) ma dall’altro lato, l’assicurazione non interviene quando vengono meno i presupposti. L’esonero, quindi, non opera allorquando venga accertato che i fatti dai quali deriva l’infortunio o la malattia professionale “costituiscano reato sotto il profilo dell’elemento soggettivo ed oggettivo” (Corte cost. n. 102/1981) per cui la responsabilità permane “per la parte eccedente le indennità liquidate” (dall’INAIL) ed il risarcimento “è dovuto” dal datore di lavoro. Da qui la nozione di danno “differenziale”, inteso come quella parte di risarcimento che eccede l’importo dell’indennizzo coperto dall’assicurazione obbligatoria e che resta a carico del datore di lavoro ove il fatto sia riconducibile ad un reato perseguibile d’ufficio. Il giudice, come precisano gli ermellini, in sede di merito, quindi, dovrà accertare in via incidentale autonoma l’illecito di rilievo penale e potrà liquidare la somma dovuta dal datore di lavoro, detraendo dal complessivo valore monetario del danno civilistico quanto indennizzabile dall’INAIL con un’operazione di scomputo che dovrà essere effettuata ex officio ed anche se l’Istituto non abbia in concreto provveduto all’indennizzo (Cass. n. 9166/2017; Cass. n. 13819/2017; Cass. n. 20932/2018). Detto indennizzo, oltre al danno patrimoniale, ristora unicamente il danno biologico permanente e non gli altri pregiudizi che compongono la nozione unitaria di danno non patrimoniale.
La competenza del giudice civile, dunque, ai fini dell’accertamento del fatto costituente reato non è più sottesa alla pendenza del giudizio penale ed alla luce delle recenti riforme del codice di procedura penale in cui viene ripudiato il principio di unità della giurisdizione e di prevalenza del giudizio penale, le Sezioni Unite (Cass. SS. UU. n. 27337/2008) affermano che “ogni Giudice sia dotato di autonomia di ciascun processo e di piena cognizione delle questioni giuridiche di accertamento dei fatti rilevanti ai fini della propria decisione” conseguendo che “attualmente costituisce punto fermo che il Giudice civile si può avvalere nell’ambito dei suoi accertamenti in merito all’esistenza del fatto considerato come reato, di tutte le prove che il rito civile prevede”. Si rammenta, dunque, la giurisprudenza secondo cui “ai fini della risarcibilità del danno non patrimoniale ex art. 2059 e 185 c.p., non osta il mancato positivo accertamento dell’autore del danno se essa (ndr. responsabilità) debba ritenersi sussistente in base ad una presunzione di legge (come l’art. 2054 c.c.) e se, ricorrendo la colpa, il fatto sarebbe qualificabile come reato”, per cui “una volta affermata l’autonomia tra il giudizio civile e quello penale, il Giudice civile deve accertare la fattispecie costitutiva della responsabilità aquiliana, posta al suo esame, con mezzi suoi propri e, quindi, con i mezzi di prova offerti al Giudice dal rito civile per la sua decisone. Tra questi mezzi non solo vi è la presunzione, legale o non, ma addirittura vi sono le c.d. “prove legali”, in cui la legge deroga al principio del libero convincimento del Giudice”. La Corte, mutatis mutandis, reputa che il ragionamento svolto dalle Sezioni Unite civili, fondato sulla separazione tra giudizio penale e giudizio civile, sia necessariamente applicabile, per coerenza di sistema, anche all’ipotesi in cui il giudice dell’azione civile debba accertare se i fatti da cui derivi l’infortunio o la malattia costituiscano reato perseguibile d’ufficio ai sensi degli artt. 10 e 11 del D.p.r. n.1124/1965 anche in ossequio della pronuncia della Corte Costituzionale (Corte cost. sent. n. 223/2003) in cui si è sostenuto che il riferimento al “reato” contenuto nell’art. 185 cod. pen., proprio in ragione dei mutamenti legislativi e giurisprudenziali intervenuti nel corso del tempo, non postula più la ricorrenza di una concreta fattispecie di reato ma solo di una fattispecie corrispondente nella sua oggettività all’astratta previsione di una figura di reato, con la possibile conseguenza che “ai fini civili la responsabilità sia ritenuta per effetto di una presunzione di legge”.
Pretendere in tali casi che il giudice civile operi con gli strumenti penalistici significherebbe oggettivamente aggravare la posizione del lavoratore danneggiato, sottoponendo il medesimo ad un trattamento deteriore – quanto al danno cd. “differenziale” – rispetto a quello destinato a qualsiasi altro danneggiato che può ottenere il risarcimento integrale avvalendosi delle più agevoli regole di accertamento della responsabilità civile. Disparità di trattamento che presenterebbe profili di tensione con l’art. 3 della Costituzione, in combinato disposto con l’art. 38 Cost. che conferisce una speciale protezione ai lavoratori in caso di infortunio e malattia, per cui non sarebbe giustificato che costoro fossero meno tutelati rispetto a qualsivoglia altro cittadino e proprio in un momento di maggiore bisogno e difficoltà. Del resto il particolare rigore richiesto per l’accertamento della responsabilità penale si spiega con la necessità di superare la presunzione di innocenza (in virtù del principio dell’oltre ogni ragionevole dubbio), in rapporto con la libertà personale in gioco, mentre nella responsabilità civile prevalgono le finalità di tutela della vittima dell’illecito, essendo essa dominata dalla funzione riparatoria e compensativa sostenuta dal principio del “più probabile che non”.
Fermo restando il fatto illecito accertato in sede civile imputabile ad un terzo che, dalla sua condotta, determina l’evento morte del danneggiato, la Corte, in merito alla liquidazione del danno non patrimoniale iure hereditatis ribadisce i principi di diritto enunciati in precedenti giurisprudenziali secondo i quali, al fine di far sorgere un diritto in capo ai legittimati attivi legati da un rapporto di diritto con il de cuius (cd. “eredi”, titolari iure hereditatis che ereditano iure successionis ed i cd. “prossimi congiunti”, titolari iure proprio che ereditano un diritto al risarcimento del danno) è necessario che tra la lesione e la morte (del danneggiato vittima di illecito) trascorra un cd. “apprezzabile lasso di tempo” per la maturazione del danno terminale e che la lesione della salute concretizzi, a sua volta, un danno biologico. Escludendo la configurabilità del danno tanatologico dal momento che il danno da morte immediata non trova riscontro nell’ordinamento domestico stante la lesione del bene vita che coincide contestualmente con la perdita della capacità giuridica ai sensi dell’art. 1 cod. civ. (e quindi anche con l’impossibilità per il soggetto di diventare titolare del credito risarcitorio trasmissibile), la determinazione del lasso di tempo che intercorre tra la lesione e l’evento fine vita deve essere “apprezzabile”, ossia occorre che nella dimensione spazio tempo antecedente la morte il soggetto sia cosciente ma la puntuale distinzione, ai fini della risarcibilità del danno biologico terminale e del danno catastrofale (o catastrofico) (1) si rinviene specificamente nel fatto che: presupposto necessario e sufficiente, per il danno biologico terminale, è l’apprezzabile lasso di tempo; presupposto necessario e sufficiente, per il danno catastrofale, è lo stato di coscienza della vittima. Dunque, rimangono esclusi i casi in cui non sussiste né l’apprezzabile lasso di tempo né lo stato di coscienza ed i casi nei quali il soggetto permane in uno stato di coma sino all’evento morte.
Di conseguenze, ai fini dell’adozione dei criteri per la quantificazione del risarcimento del danno, i giudici di legittimità dissentono dalle motivazioni addotte dal Tribunale in cui veniva paragonato e quantificato il risarcimento della danno biologico terminale alla cd. “ingiusta detenzione” (cioè nella privazione del bene della libertà personale per fatto ingiusto comportante, a favore del danneggiato, un indennizzo). Secondo gli ermellini, il “tabellare Milanese” è scelto come unico parametro per la liquidazione del risarcimento sicché, l’assimilazione del “bene vita” con il “bene salute” non è comparabile dal momento che il bene giuridico oggetto di tutela si discosta sia da un punto di vista penal-processuale sia dall’assenza di una adeguata giustificazione della lesione della salute con la privazione della libertà personale. Sulla scorta della giurisprudenza penale (Cass. pen. Sez. IV, n. 17718/2008) si rammenta che ha negato qualsiasi estensione analogica della speciale disciplina degli artt. 314 e 315 c.p.p., per le fattispecie di detenzione cautelare ingiusta disposta ed eseguita in ambito penale finanche all’ipotesi del trattamento sanitario obbligatorio, nonostante quest’ultimo colpisca la persona in modo simile all’ingiusta detenzione perché determina la restrizione della sua libertà personale ed effetti negativi sull’immagine (Cass. n. 2217/2019).
Dunque, nella determinazione complessiva, quando manchino i criteri stabiliti dalla legge, l’adozione della regola equitativa contenuta nell’art. 1226 c.c. deve garantire un’adeguata valutazione delle circostanze del caso concreto e tale uniformità venga garantita dal riferimento al criterio di liquidazione adottato dal Tribunale di Milano (sia per l’ampia diffusione sul territorio nazionale sia per il riconoscimento attribuito dalla giurisprudenza di legittimità alla stregua e in applicazione dell’art. 3 Cost) potendosene discostare solo in circostanze idonee a giustificarne l’abbandono (Cass. n. 12408/2011; Cass. n. 27562/2017) adeguatamente accertate e motivate dal giudice in sede di merito.
Per ciò che attiene all’esclusione in sede di merito, in capo alle eredi, della rivalutazione monetaria sulle somme precedentemente calcolate e liquidate dal giudice di prime cure, la Cassazione conclude con l’affermazione dei principi precedentemente enunciati in base ai quali nell’obbligazione risarcitoria (che costituisce debito valore in quanto diretta alla reintegrazione del danneggiato nella stessa situazione patrimoniale nella quale si sarebbe trovato se il danno non fosse stato prodotto) il principale mezzo di commisurazione attuale del valore perduto dal creditore è fornito dalla rivalutazione monetaria mentre il riconoscimento degli interessi rappresenta una modalità di liquidazione del possibile danno ulteriore da lucro cessante, cui è consentito fare ricorso solo nei casi in cui la rivalutazione dell’importo liquidato in relazione all’epoca dell’illecito, non valgano a reintegrare pienamente il creditore. Pertanto, il mero ritardo nella percezione dell’equivalente monetario non dà automaticamente diritto alla corresponsione degli interessi. Anzi, gli interessi compensativi esigono la prova gravante sul soggetto danneggiato, del mancato guadagno, comportatogli dal ritardato pagamento anche in via presuntiva (Cass. n. 22607/2006). Dunque, nel caso di specie, la liquidazione “in moneta attuale” risulta integralmente satisfattiva visto che nell’obbligazione risarcitoria per fatto illecito è possibile “la diretta liquidazione in valori monetari attuali” ed ove “non valgono a reintegrare pienamente il creditore” è onere del medesimo “provare, anche in base a criteri presuntivi, che la somma rivalutata (o liquidata in moneta attuale) sia inferiore a quella di cui avrebbe disposto, alla stessa data della sentenza, se il pagamento della somma originariamente dovuta fosse stato tempestivo” (da ultimo cfr. Cass. n. 18564/2018).