La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 34341 del 3.12.2020, si è nuovamente occupata del tema delle malattie asbesto-correlate e lo ha fatto in relazione alla vicenda processuale della Fibronit, azienda produttrice di manufatti in amianto, sita in Broni (PV).
La pronuncia ha segnato la conclusione del processo ai dirigenti aziendali, imputati dei delitti di omicidio colposo dei lavoratori dipendenti della società ma anche dei loro familiari ed, inoltre, di alcuni soggetti residenti in prossimità dello stabilimento Fibronit, esposti all’amianto fin dal 1932. Ai due imputati, succedutosi nella posizione di garanzia, era contesta l’omissione di cautele idonee a evitare o, quantomeno a limitare, le conseguenze dannose derivanti dalla lavorazione di manufatti in cemento-amianto e dal generale degrado e cattivo stato di conservazione delle strutture aziendali, tali da provocare un’importante aerodispersione di fibre e la conseguente esposizione passiva dei lavoratori.
La Corte di Appello di Milano confermava parzialmente la condanna inflitta all’esito del giudizio abbreviato dal Tribunale di Pavia. Il giudice di secondo grado, infatti, applicando i criteri indicati nel documento della “III Italian Consensus Conference on Malignant Mesotheliom” e, nello specifico, accogliendo la tesi della dose-correlata e, dunque, della rilevanza concausale di ogni esposizione all’amianto, giungeva ad affermare la responsabilità penale dei due imputati in relazione all’epoca in cui essi assunsero qualifiche apicali, sovrapposta all’esposizione all’asbesto delle vittime. La Cassazione, nel dicembre 2020, ha disposto l’annullamento della sentenza della Corte di merito, pronunciandosi ancora una volta sulla prova scientifica in relazione all’accertamento del nesso causale delle malattie amianto-correlate.
La problematica concernente la rilevanza eziologica delle esposizioni a fibre di amianto rispetto all’insorgenza e lo sviluppo di patologie professionali costituisce oggetto di un intenso dibattito giurisprudenziale e dottrinale. Il problema, tuttavia, non risiede nello stabilire se l’inalazione di fibre possa cagionare malattie quali il mesotelioma o il tumore del polmone, questione questa sulla quale si registra un consenso unanime e positivo della comunità scientifica, ma piuttosto nell’individuare quali periodi di esposizione a fibre di amianto abbiano importanza causale.
Accanto a ciò, permane in ambito scientifico incertezza anche in merito alla scansione temporale del mesotelioma pleurico. In relazione a tale patologia, gli esperti distinguono la fase della c.d. induzione, comprensiva della iniziazione, in cui l’agente cancerogeno aggredisce le cellule, e della promozione, nella quale le cellule compromesse iniziano a proliferare; e la fase della c.d. progressione o latenza a partire dalla quale il processo tumorale diviene irreversibile ed è provata l’irrilevanza di tutte le successive esposizioni.
Risulta, pertanto, dirimente l’individuazione dell’esatto momento in cui la malattia giunge al c.d. failure time, con cui si chiude il periodo dell’induzione e inizia la fase di latenza clinica. Si tratta di un cruciale spartiacque la cui precisa determinazione permette di selezionare, a ritroso, le condotte significative dal punto di vista penale, realizzate dai singoli datori di lavoro.
Nel caso di specie, la Cassazione si sofferma proprio sull’importanza del failure time perché senza una collocazione temporale precisa dello stesso, diventa impossibile segnare la linea di demarcazione tra i garanti che hanno operato prima, svolgendo un ruolo concausale nella progressione della malattia, e quelli che hanno assunto la posizione di garanzia dopo il momento di irreversibilità della patologia. Indagine questa che si rende obbligata per giungere ad una declaratoria di responsabilità rispettosa del canone di personalità di matrice costituzionale.
Ripercorrendo il percorso argomentativo seguito, in primo grado e, successivamente, in Appello, la Cassazione ritiene apodittica la ricostruzione in ordine alla questione della determinazione del “vero periodo di latenza”. Difatti, la sentenza impugnata collocava il failure time “a ritroso” prima delle diagnosi di mesotelioma pleurico, e, dunque, risalente a circa 10 anni prima della diagnosi tumorale. Epperò, si tratta di un arco temporale assai ampio che non consente di determinare con univoca certezza se il periodo compreso tra il 1981-1985- in cui entrambi gli imputati ricoprivano posizioni di garanzia-abbia o meno trovato collocazione all’interno della fase di induzione delle singole cancerogenesi dei soggetti coinvolti.
Tale criticità, alla cui risoluzione è legata, sul piano logico, la possibilità di attribuire rilievo eziologico alle condotte commissive od omissive attribuite agli imputati nella fase della induzione, porta i giudici di legittimità a soffermarsi sul tema dell’accertamento del nesso causale.
La Cassazione, seppur riassuntivamente, ripropone i consolidati principi giuridici in tema di nesso di causalità tra la condotta del datore di lavoro ed il fatale insorgere del mesotelioma pleurico, oggetto delle principali sentenze di legittimità.
Giova, in proposito, partire dalla ricostruzione della causalità operata dalle Sezioni Unite, nel 2002, nella storica sentenza Franzese, che ha avuto il merito di cristallizzare il modello di sussunzione sotto legge scientifica di tutte le condotte definibili “conditio sine qua non” della verificazione dell’evento finale. “Il nesso causale può essere ravvisato quando, alla stregua del giudizio controfattuale condotto sulla base di una generalizzata regola di esperienza o di una legge scientifica – universale o statistica -, si accerti che, ipotizzandosi come realizzata (…) la condotta doverosa impeditiva dell’evento “hic et nunc”, questo non si sarebbe verificato, ovvero si sarebbe verificato ma in epoca significativamente posteriore o con minore intensità lesiva”. Attraverso il riportato passaggio motivazionale, dunque, la Corte di Cassazione conferma la necessità di valutare, nell’accertamento causale, l’evento nella sua dimensione specifica e concreta così da pervenire ad una conclusione caratterizzata da un alto grado di credibilità razionale e, dunque, prossima alla certezza processuale. I principi enucleati dai giudici delle Sezioni Unite hanno trovato applicazione anche nei processi in tema di amianto nei quali si assiste ad un vero cambio di paradigma causale. Ai fini, infatti, della imputazione eziologica dell’evento non si utilizza più la c.d. teoria dell’aumento del rischio- in forza della quale è sufficiente la mera idoneità della condotta, attiva o omissiva, per la prova della causalità- bensì un giudizio bifasico che consente di comprovare quella idoneità, astratta e generale, alla luce di tutte le circostanze del caso concreto.
Nel complesso panorama giurisprudenziale, un ulteriore snodo di particolare rilievo è rappresentato dalla nota sentenza Cozzini del 2010 con la quale la Cassazione prova a fornire le seguenti indicazioni metodologiche: “l’affermazione del rapporto di causalità tra le violazioni delle norme antinfortunistiche ascrivibili ai datori di lavoro e l’evento-morte (dovuta a mesotelioma pleurico) di un lavoratore reiteratamente esposto, nel corso della sua esperienza lavorativa, all’amianto, sostanza oggettivamente nociva, è condizionata all’accertamento: (a) se presso la comunità scientifica sia sufficientemente radicata, su solide e obiettive basi, una legge scientifica in ordine all’effetto acceleratore della protrazione dell’esposizione dopo l’iniziazione del processo carcinogenetico; (b) in caso affermativo, se si sia in presenza di una legge universale o solo probabilistica in senso statistico; (c) nel caso in cui la generalizzazione esplicativa sia solo probabilistica, se l’effetto acceleratore si sia determinato nel caso concreto, alla luce di definite e significative acquisizioni fattuali; (d) infine, per ciò che attiene alle condotte anteriori all’iniziazione e che hanno avuto durata inferiore all’arco di tempo compreso tra inizio dell’attività dannosa e l’iniziazione della stessa, se, alla luce del sapere scientifico, possa essere dimostrata una sicura relazione condizionalistica rapportata all’innesco del processo carcinogenetico”.
Applicando tale schema al caso di specie, i giudici di legittimità rilevano l’impossibilità di verificare se il c.d. effetto acceleratore si sia determinato nel caso concreto. L’assenza di certezza scientifica non consente di accertare che, nel periodo di assunzione della posizione di garanzia da parte dei soggetto chiamati a rispondere degli esiti letali dell’esposizione, quest’ultima fosse causalmente idonea ai fini della patogenesi e dell’accelerazione del decorso mortale della malattia.
L’accertamento della causalità della patologia professionale deve, qui, confrontarsi con una esposizione protratta per lunghi anni a fronte di una successione dei vertici aziendali. La criticità, dunque, nel determinare il momento iniziale e finale della induzione reca la difficoltà di selezionare l’arco temporale delle esposizioni rilevanti per la malattia contratta dalle vittime e, entro questi limiti, di attribuire l’esposizione al garante responsabile.
Vi è di più in quanto il criterio dell’effetto acceleratore si fonda su una legge di natura probabilistica, pertanto, in tema di accertamento eziologico occorre verificare in concreto l’abbreviazione dei tempi di progressione o latenza.
Ritorna, dunque, la questione del “quantum” della prova scientifica nelle dinamiche della ricostruzione del nesso di causalità. La Cassazione, sul punto, richiama i principi della sentenza Cirocco, in forza dei quali la dimostrazione della attribuzione causale deve fondarsi su di una legge di copertura riconosciuta dalla comunità scientifica come quella maggiormente accreditata. In relazione alla valutazione della stessa, però, la Corte di Cassazione precisa i limiti del sindacato di legittimità stabilendo che: “alla Corte regolatrice non spetta il compito di individuare ed enunciare i criteri scientifici che presiedono alla ricostruzione del nesso causale (sia sotto il profilo della causalità generale, sia sul piano della causalità individuale); ma quello di verificare se la decisione impugnata abbia adeguatamente argomentato circa la validità dei criteri scientifici adottati a tal fine, anche in termini di condivisione degli stessi presso la comunità scientifica di riferimento”.
Alla luce di quanto riportato ed, in particolare, dei principi mutuati dalla consolidata giurisprudenza di legittimità, la Cassazione, il cui ruolo consiste nel compiere un controllo circa la correttezza metodologica e motivazionale della sentenza impugnata, ritiene di dover censurare la decisione del giudice di merito, stante l’impossibilità di riferire a ciascun garante un ruolo rilevante nell’eziologia delle singole patologie, a fronte delle evidenze scientifiche a disposizione.